CASSAZIONE CIVILE, SEZ. I, SENTENZA N. 17279 DEL 2 LUGLIO 2018
(Società pubblica – Attività commerciale – Fallibilità)

Tutte le società cosiddette pubbliche, che svolgano attività commerciale, quale che sia la composizione del loro capitale sociale, le attività in concreto esercitate, ovvero le forme di controllo cui risultano effettivamente sottoposte, restano assoggettate al fallimento, al pari di ogni altro sodalizio nei cui confronti debbano trovare applicazione le norme codicistiche poiché la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali – e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico -, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità.

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La sentenza più sopra riportata, torna a ribadire quanto recentemente affermato anche dal Legislatore nazionale con il D.Lgs. 175/2016 (meglio noto come decreto Madia) in ordine alla c.d. “fallibilità” delle società pubbliche.

Il tema del fallimento delle società in mano pubblica, e in particolare delle società partecipate dagli enti locali, ha affaticato per anni giurisprudenza e dottrina. Ciò in particolare da quando, nel 2009, si è affacciata l’idea di applicare anche a tali società l’esenzione dal fallimento prevista, dall’art. 1 della legge fallimentare per gli enti pubblici.

Il ragionamento era all’incirca il seguente: se le società partecipate sono organizzate e operano come se fossero enti pubblici, gestendo magari dei servizi pubblici come in precedenza avevano fatto gli enti pubblici (quali le aziende speciali) perché non trattarli, ai fini delle regole fallimentari, come gli stessi enti pubblici ? In fondo, si sosteneva, tali soggetti sono società solamente nella forma, mentre nella sostanza sono soggetti pubblici.

Dopo anni di oscillazioni, ora in un senso ora nell’altro, la Cassazione si è infine pronunciata con la decisione n. 22209 del 2013, che ha ritenuto fallibile una società mista, per via del fatto che una società di capitali, anche se a capitale pubblico, rimane assoggettata al regime del Codice Civile se non vi è una espressa deroga di legge. Inoltre secondo il giudice di legittimità la non applicabilità delle regole sul fallimento alle società pubbliche configurerebbe una violazione dei principi di concorrenza, di uguaglianza e di affidamento. Poco dopo, con la sentenza n. 26283 del 2013 delle Sezioni Unite, la Suprema Corte ha affermato che le società in house non sono altro che articolazioni organizzative dell’ente pubblico controllante.

Pertanto, se la fallibilità delle società a capitale misto pubblico-privato sembrerebbe essere pacifica, la giurisprudenza è estremamente oscillante per quanto riguarda le società a totale partecipazione pubblica.

Negli ultimi anni i tribunali fallimentari si sono divisi, pressoché in modo equo, tra i sostenitori della fallibilità delle società partecipate – anche in house – e quelli che hanno rigettato l’istanza di accesso delle stesse alle procedure concorsuali. Nel primo senso si sono pronunciate, per esempio, il Tribunale di Modena (decreto del 10.1.2014) e il Tribunale di Pescara (decreto del 14.1.2014) .

Hanno invece sostenuto la non fallibilità il Tribunale di Verona (decreto del 19.12.2013) e il Tribunale di Napoli (decisione del 20.1.2014) e quello di Teramo (decisione del 10.09.2015) .

In particolare, questi ultimi pronunciamenti hanno in comune lo stesso approccio al problema, ossia l’idea di escludere, ai sensi dell’art. 1, comma 1, legge fallimentare, la fallibilità di una società c.d. “in house providing”, per equiparazione della medesima ad un qualsivoglia “ente pubblico”, categoria espressamente dichiarata non fallibile dalla legge.

Peraltro, anche a tali fini, affinché una società possa essere qualificata “in house” (e in quanto tale sottratta alle regole della evidenza pubblica), occorrerà che ricorrano cumulativamente i tre noti presupposti inscindibili che definiscono una società partecipata “in house providing”: 1) la sussistenza della partecipazione pubblica totalitaria; 2) la circostanza che l’affidamento abbia luogo in favore di soggetti sottoposti al “controllo analogo a quello esercitato sui servizi” dell’ente; 3) il fatto che il destinatario dell’affidamento diretto svolga la parte più importante della propria attività in favore della amministrazione o delle amministrazioni che le controllano.

Nelle citate pronunce giurisprudenziali i tribunali non hanno ritenuto che la società partecipata fosse assoggettabile alle regole del fallimento perché mera longa manus dell’ente locale, con la logica conseguenza che il relativo patrimonio, pur separato da quello dell’ente o degli enti pubblici partecipanti al capitale, a loro modo di vedere non sarebbe risultato pienamente distinto.

Conseguenza di un siffatto approccio al problema sarebbe che i creditori delle società in house avrebbero a buon diritto il potere di aggredire il patrimonio degli enti locali soci. È chiaro che un risultato del genere metterebbe a dura prova i già traballanti conti degli enti locali, esponendoli al potenziale dissesto.

Pertanto non era difficile prevedere che, al fine di porre un argine a tale orientamento giurisprudenziale, il legislatore sarebbe corso ai ripari, finalmente disciplinando in modo specifico il tema del dissesto delle società di proprietà pubblica.

In merito al presupposto soggettivo si evidenzia come, in forza della novella introdotta dall’art.14 del T.U., la società in partecipazione pubblica sia quindi considerata dal Legislatore alla stregua di un qualsiasi altro imprenditore commerciale.

Vi è da aggiungere a tal proposito che, come peraltro riconosciuto dai pronunciamenti giurisprudenziali che già configuravano l’assoggettabilità delle società in partecipazione pubblica alle procedure concorsuali, le società di capitali con partecipazione pubblica non mutano la loro natura di soggetto di diritto privato solo perché lo Stato o gli enti pubblici (Comune, Provincia, etc.) ne posseggono, in tutto o in parte, il capitale non assumendo rilievo alcuno, per le vicende della medesima, la persona dell’azionista, dato che tale società, quale persona giuridica privata, opera “nell’esercizio della propria autonomia negoziale, senza alcun collegamento con l’ente pubblico” e gli strumenti utilizzati per regolare il rapporto tra società ed ente locale non possono essere quelli autoritativi di diritto pubblico spendibili nell’organizzazione diretta dell’ente, ma l’ente può avvalersi unicamente degli strumenti propri del diritto societario, da esercitare per il tramite dei membri di nomina pubblica presenti negli organi sociali .

Invero, la legge non prevede “alcuna apprezzabile deviazione, rispetto alla comune disciplina privatistica delle società di capitali, per le società miste incaricate della gestione di servizi pubblici istituiti dall’ente locale. La posizione del Comune all’interno della società è unicamente quella di socio di maggioranza, derivante dalla “prevalenza” del capitale da esso conferito; e soltanto in tale veste l’ente pubblico potrà influire sul funzionamento della società… avvalendosi non già dei poteri pubblicistici che non gli spettano, ma dei soli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli organi della società” .

Sulla base di tali presupposti si può concludere che il contemperamento fra tutela dei creditori e necessità di una efficiente gestione del servizio non può essere individuato nell’applicazione di istituti di privilegio, tipicamente previsti per enti pubblici (come l’esenzione dal fallimento).

Articolo a cura dell’Avvocato Stefano Ilari